Il
29 ottobre di dieci anni fa moriva, a
Milano, Franco Corelli, uno dei più grandi
tenori di tutti i tempi. Era nato ad Ancora,
l’8 aprile 1921.
I giovani forse non lo ricordano. Anche
perchè la Musica lirica, patrimonio eccelso
del nostro Paese e dell’umanità, è
trascurata dai media. Ma Corelli fa parte di
quella schiera di leggendari interpreti
italiani, come Enrico Caruso, Mario Del
Monaco, Giuseppe Di Stefano, Luciano
Pavarotti, Maria Callas, Renata Tebaldi,
Giulietta Simionato e tanti altri, che hanno
fatto la storia del Belcanto. I loro nomi
sono magici, conosciuti in tutto il mondo.
Pronunciandoli, suscitano ricordi, emozioni,
sorrisi di simpatia, perfino se ci si trova
in nazioni lontanissime dalla nostra
cultura, come il Giappone, la Cina, la
Corea.
La natura aveva dotato Corelli di un mezzo
vocale straordinario. Ma egli non si era
adagiato su quel dono. Ha faticato tutta la
vita per migliorarne l’efficienza e per
renderlo duttile al servizio delle creazioni
dei sommi compositori, raggiungendo
traguardi di perfezione assoluta.
I critici lo avevano definito “il principe
dei tenori”.
Ma nonostante la fama leggendaria, Corelli
visse sempre come una persona qualunque.
Nessuna esibizione di grandezza, nessun
atteggiamento divistico, nessuna
eccentricità. Nel 1958 aveva sposato una
cantante lirica, Loreta Di Lelio, che, dopo
il matrimonio, aveva immediatamente
abbandonato la carriera per stare sempre
accanto al marito. Non ebbero figli e
Loretta dedicò ogni attimo della sua
esistenza al marito. Fu la sua consigliera
più preziosa, il suo sostegno psicologico e
morale più forte nelle difficoltà. Vissero
serenamente inseparabili. E ora anche
Loretta se ne è andata silenziosamente nel
gennaio scorso.
La grandezza artistica di Corelli è
fortunatamente affidata alla
incisioni discografiche, che sono
molte e tutte straordinarie.
Ascoltandole, ci si rende conto che
era veramente un grandissimo
interprete. |
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Della sua vita privata si
conosce poco. Conduceva un’esistenza
estremamente riservata. Un giorno,
accettando di parlarmi di se stesso, mi
disse: <<Da quando ho cominciato questa
carriera, la mia vita è diventata un po'
strana. Vivo in funzione della mia voce.
Devo impormi molti sacrifici. Anche quando
non lavoro, continuo a condurre una
esistenza ritiratissima. Sto con mia moglie.
Andiamo a mangiare in qualche ristorante
caratteristico perché Loretta è una
appassionata ed esperta di cucina. Non
frequentiamo night, prime di cinema,
cocktail, party. Abbiamo pochissimi amici,
forse quattro, cinque. Amo molto fare
passeggiate tra il verde, in montagna,
possibilmente in mezzo al silenzio assoluto.
Leggo libri e ascolto musica classica>>.
In
un’altra occasione, aggiunse: << Da
quando ho cominciato questa professione, la
mia vita è un inferno. Per mantenermi al
livello che ho raggiunto, devo lottare
continuamente. Ogni giorno faccio alcune ore
di vocalizzi per tenere in esercizio la
voce. Faccio inoltre un certo numero di
esercizi ginnici per mantenere il fiato
lungo e possente. Parlo il meno possibile,
evito di mangiare certi cibi, non bevo
alcool e non fumo, evito l'aria fredda della
sera, i luoghi umidi, gli spifferi d'aria in
albergo, al ristorante, in macchina: la voce
umana e delicatissima e una piccola
disattenzione può far saltare un'opera>>.
Aveva un profondissimo senso del dovere. Mai
cancellato una recita. Mai arrivato in
palcoscenico poco preparato. Mai creato
polemiche, difficoltà, incomprensioni.
Desidero ricordarlo raccontando un episodio
assolutamente inedito della vita di Corelli:
il suo incontro con un altro grande tenore
veronese del passato, Giuseppe Lugo.
Episodio sconosciuto perché fui io stesso a
combinarlo e non l’ho mai raccontato.
Episodio che documenta la profonda umanità
di questo artista geniale e generoso.
Era l’estate del 1972. Franco Corelli era a
Verona, impegnato in due opere, “Ernani” e
“Aida”, al Festival lirico dell’Arena di
Verona. Era nel pieno della sua grandezza
artistica e della sua popolarità. Alto un
metro e ottantaquattro centimetri, fisico
atletico, asciutto, volto espressivo da
attore del cinema, quando usciva
dall’albergo era seguito dagli sguardi
ammirati di tutti. Il suo incedere era
regale, e nessuno osava avvicinarlo. Passava
tra la gente bello come un dio greco.
Gli avevo telefonato e avevo preso un
appuntamento per un’intervista.
Nei
pressi di Verona, e precisamente Custoza,
una ventina di chilometri dalla città, in
collina, tra il verde, c’era una trattoria
che si chiamava “Villa Vento”, dove si
mangiava molto bene. Ci andavo spesso perché
era tenuta da un ex tenore, Giuseppe Lugo,
conosciuto da tutti come “Bepi”, amatissimo
dalla gente che raccontava le sue
leggendarie imprese canore all’Arena.
Bepi aveva allora 73 anni. Non era in buone
condizioni fisiche e tanto meno economiche.
La sua carriera artistica era stata breve e
aveva avuto dei dissesti che gli avevano
fatto perdere una autentica fortuna
economica. Quando andavo a pranzo da lui,
veniva sempre al mio tavolo e accennava ai
suoi trionfi passati, ma sempre con molta
discrezione. In pratica, io che lo
frequentavo, non sapevo quasi niente della
sua vita e della sua carriera.
Quel giorno, mentre pranzavo, gli dissi che
ero a Verona per una intervista con il
tenore Franco Corelli. Come pronunciai quel
nome, vidi gli occhi del vecchio diventare
lucidi e una smorfia del viso mi fece capire
che si era commosso.
<<Lo conosce?>>, chiesi.
<<E’ un grande>>, disse lui alzandosi
dalla sedia e andando verso il banco quasi a
voler nascondere la commozione che quel nome
gli aveva provocato. Poi, sottovoce,
aggiunse: <<Mi piacerebbe molto
conoscerlo>>.
<<Se vuole lo porto qui a pranzo, domani>>,
dissi.
<<Magari>>,
rispose laconico. In genere era molto
loquace. Soprattutto quando si parlava di
lirica. Invece, si era chiuso in uno strano
silenzio. Avevo capito che quel nome aveva
risvegliato in lui vecchi ricordi. Gli
sarebbe piaciuto incontrare quel “grande”,
ma forse aveva pensato che lui, essendo
vecchio e dimenticato, non avrebbe mai avuto
quel privilegio.
A mia volta, mi ero subito pentito anch’io
di avergli fatto quella mezza promessa.
Riflettendo sul fatto che Corelli era
l’idolo delle folle, ma che se ne stava
chiuso in albergo perché ritroso, timido,
impacciato sempre di fronte all’entusiasmo
della gente, forse non avrebbe mai accettato
di venire a pranzo in una trattoria in
campagna per salutare un vecchio tenore del
passato. E quindi per Lugo sarebbe stata una
nuova amarezza. Ma la commozione che avevo
visto negli occhi di Bepi mi spinse a osare.
Il giorno dopo ne parlai a Corelli. Presi il
discorso alla larga. Gli dissi che si poteva
andare a mangiare fuori città, in un luogo
fresco, in collina, tra il verde, poco
frequentato, ma dove il cibo era sano e
molto buono. E alla fine aggiunsi: <<La
trattoria è tenuta da un ex tenore, famoso
negli Anni Trenta>>.
<<Come si chiama?>>, chiese Corelli.
<<Bepi Lugo>>, dissi.
<<Giuseppe Lugo>>, ripetè Corelli
pronunciando adagio quel nome, quasi a voler
correggere la familiarità disinvolta con cui
io lo avevo pronunciato. <<Giuseppe Lugo, un
grande tenore>>, aggiunse. <<Veramente
grande artista e sarebbe un onore per me
conoscerlo>>.
Rimasi stupito. Non pensavo che Corelli lo
conoscesse, e in modo tale da pronunciare
quella frase incredibile: “Sarebbe un onore
per me conoscerlo”. Combinammo per il giorno
successivo, a pranzo.
Ora ero diventato curioso. Molto curioso.
L’interesse di Corelli era stato un
campanello d’allarme. Decisi di informarmi
bene sul tenore Giuseppe Lugo.
Andai a trovare un mio amico, un bravissimo
poeta dialettale veronese, Giovanni Recchi,
che era anche appassionato di lirica.
Conosceva bene la storia di Giuseppe Lugo.
Mi disse che Lugo era una grande gloria di
Verona. Un vero mito per i veronesi. Era
nato a Rosolotti di San Giorgio in Salice,
frazione di Sona, importante centro agricolo
veronese dalla parti del lago di Garda. Era
figlio di povera gente. Aveva avuto una
infanzia infelice perché rimasto orfano di
madre. Ancora ragazzino era andato a
lavorare a Milano. Aveva fatto il soldato
nella prima guerra mondiale e poi era
emigrato in Belgio a fare il minatore. Amava
la lirica e aveva una bella voce. Cantando
con gli amici nel caffè che il sabato sera
frequentava a Charleroi, attirava gente. Al
punto che a volte, sulla strada di fronte al
caffè si formava una folla di curiosi così
numerosa da bloccare il traffico e doveva
intervenire la polizia.
Fu ascoltato per caso dal direttore di un
coro locale, che si offrì di darli lezioni
di musica gratis. Continuò a fare il
minatore, ma alcuni anni dopo vinse un
concorso lirico al “Théâtre national de
l'Opéra-Comique” di Parigi e debuttò come
Cavaradossi nella “Tosca”. Fu un trionfo. I
giornali lo definirono “il nuovo Gigli”.
Iniziò una carriera strepitosa in Francia,
in Belgio e poi anche in Italia. All’Arena
di Verona, cioè in casa, ottenne trionfi
memorabili nel 1936, ‘37, ‘38 e ‘39. Nel
dopoguerra, si era dato al cinema, ma era
caduto in mano a una banda di malviventi che
lo avevano convinto a finanziare un film
sulla propria vita, ma poi erano fuggiti con
i soldi senza aver girato neppure una scena.
Lugo in quell’occasione aveva perso una
fortuna. Il poeta Recchi mi disse anche che
la trattoria di Lugo, a Custoza, si chiamava
“Villa Vento”, in ricordo di una canzone,
“Vento”, che era stata un cavallo di
battaglia del tenore. L’aveva incisa in
disco ottenendo un successo strepitoso. E
sull’onda di quel successo, nel 1939, era
stato protagonista di un film dal titolo “La
mia canzone al vento”, diretto da Guido
Brignone, regista tra i più noti del suo
tempo, e che, nel 1934, era stato il primo
regista italiano a vincere il massimo premio
alla Mostra Cinematografica di Venezia.
Insomma, quel mio amico mi raccontò una
storia fantastica che non conoscevo, e che
invece Corelli doveva conoscere, visto con
quale entusiasmo aveva accettato di venire a
pranzo da Giuseppe Lugo.
La scena dell’incontro, il giorno dopo, tra
Corelli e Lugo, è ancora indelebile dentro
di me. Bepi piangeva, e Corelli era
incantato davanti a quel vecchio commosso
fino alle lacrime. Con noi c’erano la moglie
di Franco, Loretta, e Bruno Tosi che curava
le pubbliche relazioni di Corelli. Eravamo
andati per pranzare. Noi tre abbiamo
mangiato e bene; loro due, Franco e Bepi,
non hanno fatto altro che parlare. Se ne
stavano seduti in giardino, tra il verde.
Parlavano di lirica, di opere liriche, di
interpretazioni. Corelli, come uno
scolaretto, chiedeva, con curiosità.
Chiedeva informazioni su particolari
passaggi difficili in certe romanze famose,
e chiedeva come Lugo facesse a prendere con
precisione e estrema spontaneità certe note
difficili, dimostrando di conoscere tutto
del vecchio tenore e di avere ascoltato bene
le sue incisioni. E Lugo raccontava. Era
frastornato dalla gioia di sentirsi
apprezzato da quel grande artista. Il suo
viso, in genere sempre triste, era diventato
luminoso come quello di un santo. Il vecchio
Bepi parlava, parlava, era come se fosse
tornato indietro di mezzo secolo. E sul viso
di Franco Corelli leggevano una profonda e
segreta soddisfazione di essere riuscito a
dare gioia a quel suo vecchio collega.
Abbiamo trascorso tutto il pomeriggio a
“Villa Vento”. Io, che non sono un
fotografo, ho scattato delle immagini
ricordo. Immagini che sono diventate foto
storiche, soprattutto perché Loretta, la
moglie di Corelli, che mai si faceva
fotografare accanto al marito, presa
dell’entusiasmo e dalla commozione anche
lei, ha posato con Franco e Lugo. Credo
siano le uniche foto in cui si vede Loretta
con Corelli.
Renzo Allegri |